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 se il paesaggio è simbolico

 

Giuseppe Adamo

Linda Carrara

Silvia Giordani

Lorenzo Di Lucido

Vera Portatadino

Fabio Roncato

 

Galleria Boccanera | Milano

26 Gennaio - 11 Marzo 2023

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 catalogo     testo   

 

se il paesaggio è simbolico

di Linda Carrara

"se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o pietre di varii misti.

Se arai a invenzionare qualche sito, potrai li vedere similitudini di diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure grande, valli e colli in diversi modi,

atti pronti di figure e strane arie di volti [...] in simili muri e misti, vi troverai ogni nome e vocabolo che tu t’immaginerai.

 

Perché nelle cose confuse l’ingegno si desta a nove invenzioni."

 

Leonardo da Vinci

[Nata a Bergamo nel 1984, vive e lavora tra Milano e Bruxelles]

Si iniziano così le biografie e voglio iniziare così questa riflessione.

 

Per la precisione sono nata a Villa d’Adda, sulle rive di quel fiume che sgorga dalla terra in Val Alpisella, a Sondrio; sorgente alla quale mi sono recata risalendo a ritroso il fiume che si trasforma e muta, curva dopo curva e passo dopo passo, nei diversi paesaggi che si susseguono durante la salita. Il fiume Adda, possente ed impetuoso nelle gole dei Tre Corni, dove Leonardo da Vinci prese ispirazione per il fondale de La Vergine delle rocce, man mano che risale la Val Fraele diviene sempre più esile, fino a trasformarsi in un ruscello ed in ultimo in una semplice distesa di ghiaia che sprigiona acqua.

Sembra un atto magico. Osservare quelle pietre che trasudano un liquido freddo e trasparente ha qualcosa che ci lascia attoniti. La parola Adda, che dovrebbe derivare dal verbo latino abdere, cioè nascondere, ci rivela intrinsecamente nel suo nome questa possibilità di magia e di scoperta. L’Adda è così, un fiume che si mostra ma che allo stesso tempo si nasconde e soprattutto che nasconde all’apparenza visibile la sua vera natura.

É surreale trovarsi lì alla sorgente e pensare che, a chilometri di distanza e nell’immaginario della mia esperienza, quel dolce fluire d’acqua diventerà un fiume impervio, domato a tratti dalle dighe ma che sotto la sua apparente calma nasconde mulinelli e correnti di una forza spaventosa per chi lì è nato.

 

Sono cresciuta lì, lungo quel fiume che Leonardo da Vinci studiò da vicino per carpire i movimenti delle acque, le correnti sotto la superficie del visibile, per penetrare e scoprire i segreti della natura, per studiarne la materia, quasi fosse alla ricerca “del segreto Universale” ed al disvelamento del carattere stesso degli elementi, come se i suoi ritratti grotteschi non fossero riservati solo all’animo umano. Nei suoi disegni Leonardo riesce a cogliere sia lo stupore delle forme dell’apparenza che lo studio scientifico della natura. Riesce a farci sentire le stratificazioni geologiche delle ere, il senso divino della luce e delle foglie, la struttura matematica e geometrica delle forme, riesce a descrivercene le dinamiche, le lente trasformazioni e la forza nascosta della natura stessa che può incutere serenità e terrore al medesimo tempo, come i disegni delle sue acque, che irrompono e mangiano tutto ciò che trovano sul loro passaggio.

 

L’Adda è così, non è un fiume battesimale, è un fiume selvaggio, quasi all’eccesso, fino a ricordarci costantemente la simbologia della morte di cui Gaston Bachelard, parla egregiamente nelle sue conversazioni radiofoniche sulla Poesia della Materia definendo gli abissi “l’immagine dell’insondabile e l’acqua come il mistero della vertigine che attira e spaventa.”

 

Basta pensare all’acqua, trasparente nell’immaginario comune ma che si rivela ai nostri occhi tramite la sua superficie specchiante grazie alla luce della realtà che la colpisce. In quella superficie Narciso si perse ugualmente noi ci perdiamo in questa visione palindroma, tramite la quale possiamo osservare il mondo capovolto, sentendoci come di fronte a quell’aldilà di cui tanto si parla ma del quale non abbiamo una reale immaginazione.

Di fronte a quel sottilissimo velo riflettente che separa due dimensioni ben distinte, il reale e la sconosciuta profondità, noi siamo di fronte ad un limbo ineguagliabile. Restiamo così affascinati dal vedere sottosopra, da quella visione sdoppiata che risulta sacra e diabolica allo stesso tempo, essendo la perfetta simmetria immagine di perfezione ma anche simbolo demoniaco per eccellenza. La superficie dell’acqua ci parla dunque della superficialità delle immagini e, così facendo, ci apre le porte alla profondità, a quell’immensa distesa che sta’ sotto allo strato del visibile e che cela qualcosa che i nostri occhi sono impossibilitati a vedere ma che la nostra mente ama e teme immaginare.

 

La natura, spontaneamente e forse senza intenzionalità, fa ciò che l’artista ama indagare. Essa crea immagini ed immaginari, specchiando il vero, diventando mimetica o creando illusioni per fingersi più grande e potente di quanto essa sia, come la delicata farfalla che si finge animale temibile grazie a due occhi dipinti sulle ali. 

 

Questo forse il suo segreto, lo fa senza intenzionalità di farne immagine; e questo fa la natura, muta, si adatta agli eventi ed in primis pensa alla sua sopravvivenza.

 

Bachelard, con la sua poetica ci conduce vorticosamente in un viaggio nella materia dei quattro elementi come immagini primordiali e dominanti dell’umano, come immagini che fondano l’umanità e le sue credenze, Acqua, Aria, Terra e Fuoco, ce li descrive con la loro potenza creatrice e distruttiva, sottolineando per ognuno la sua anima ed il suo principio poetico. Bachelard chiede una fedele immersione nella materia fondante di tutte le cose, ci chiede di ripensare alle nostre origini “pre-culturali”, al nostro innato attaccamento alla materia e dunque alla vera origine dell’uomo, che come e con i quattro elementi fondamentali della vita, si sviluppa, cresce muta agisce e scompare.

Cenere alla cenere e polvere alla polvere.

 

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Grazie ad una bellissima conversazione con un amico artista, ho recentemente ripensato ai moti della terra ed al fatto che la crosta terrestre é in perenne autofagia. I continenti, muovendosi ciclicamente e scontrandosi uno contro l’altro, si immergono nuovamente verso il centro della terra, verso il punto di gravità, verso il punto focale e verso il fuco che tutto mangia. Questo movimento ciclico del paesaggio, come verso una purificazione, è la cosa più interessante.

“La gravità ci tiene legati alla realtà” così avevo intitolato anni fa un’opera a dir poco serena, calma e dai colori tenui, un’opera “in posa” che aveva in sé questa frase come epitaffio veggente, come monito e memento mori. Quell’avviso “ci tiene legati alla realtà” è un matrimonio stipulato alla nascita, fin che morte non vi separi, fin che la terra non digerisca le sue stesse viscere e rinasca, ciclicamente in una nuova versione e con ritrovata purezza. 

Anche così il paesaggio muta, ad una lentezza che noi esseri umani nemmeno riusciamo ad immaginare e che nessuna opera d’arte visiva potrà mai constatare. Anche per questo il paesaggio ci sopravvive e noi non saremo mai testimoni della sua vera mutazione. 

Così mi chiedo qual é oggi il segreto del paesaggio e come l’artista é incline a vederlo, dopo che per secoli é stato l’elemento  sublime dell’arte, la materia magica e simbolica di un luogo paradisiaco, dopo che ha dato vita allo 

stupore per la natura e per la sua bellezza.

 

Dagli horti conclusi con la loro calma geometrica, alla fantasia che del paesaggio se n’è presa possesso con Bosch o Grünewald. Dalla cruda realtà, la potenza e i segreti scientifici della natura vista da Leonardo da Vinci, il quale ha saputo vedere un trono in delle rocce, fino alle romantiche albe o tramonti di Caspar David Friedrich nei quali l’uomo, se presente, è un elemento esterno in ammirazione. Dai riflessi nelle acque che con Constable hanno dato vita a gesti freschi ed incontaminati, fino alla veemente pazzia di Turner che modella la pittura quasi a visione astratta del senso di paesaggio.

 

Mi chiedo quale sia oggi il segreto e cosa gli artisti stiano cercando di sviscerare da queste visioni secolari.

 

Me lo chiedo ripetutamente e da tempo vedo nella materia della natura, nell’immersione in essa e negli eventi della sua creazione una risposta ed un’interesse condiviso. 

Non più il paesaggio osservato, il paesaggio dell’orizzonte che si staglia di fronte a noi. Non più l’orizzontalità che ci pone al di fuori come osservatori della scena, ma l’immersione totale nel paesaggio stesso, il nostro esserne parte come molecole della stessa materia. Diviene così la vertigine del paesaggio, la sua verticalità che ci pone dentro, alla pari, o meglio come figli stessi della natura, carne della sua carne, posti nel suo ventre e dalla cui materia l’uomo trae vita e benefici.

 

Per citare una rêveries di Van Gogh scritta in una delle lettere a suo fratello Theo e che ci sottolinea la dolcezza con cui l’artista riusciva a leggere la materia della natura, Vincent dice “non sarebbe forse un grande ideale dipingere la terra con un pezzo di terra? […] nella craie* di montagna c’è un’anima e una vita. Nella matita Conté trovo invece qualcosa di morto. La craie direi quasi che capisca ciò che si vuole. Ascolta con intelligenza e ubbidisce mentre la matita Conté è indifferente e non collabora”. 

(*gesso-creta di montagna)

 

È proprio questo che gli artisti esposti in “se il paesaggio è simbolico” cercano di fare.

Lasciano la materia stessa divenire altro, quasi trasformando la materia artistica in evento naturale. 

 

Erosione, sedimentazione e liquidità diventano mezzi della materia artistica come i quattro elementi sono l’essenza della natura, senza concentrarsi esclusivamente sull’immagine finale ma prendendo vita da quegli stessi processi naturali che diventano co-autori dell’opera, lasciando adito al “lasciar essere” della materia artistica ed al “divenire” tipico degli eventi naturali. 

Il mondo racchiuso in un granello invisibile all’occhio umano e quello infinitamente ampio della materia universale, per citare le profonde parole di Paolo Spinicci nel suo scritto “L’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo”, mettendo così in evidenza ciò “che sta al di fuori di noi”, ciò che ci sopravviverà e che ci fa sentire persi in un cosmo sterminato.

L’intenzione sembra esser lasciata libera, non racchiusa nell’immagine finale ma aperta in quella materia tramite la quale l’uomo immagina e che, nelle mani dell’artista, sa divenire “eco perfetto dello stato naturale”. Non più dunque l’immagine del paesaggio visivo ma l’evocazione di un’immaginazione propria della materia primordiale, parte innata forse dell’esperienza umana, che vive nei quattro elementi grazie ai sensi. Tatto, vista, gusto, udito ed olfatto.

 

Forse nell’insieme ed assieme a queste possibilità primarie, l’artista è oggi chiamato ad addentrarsi nel paesaggio, se il paesaggio è simbolico.

 

 

 

“noi immaginiamo direttamente la materia, al di là delle forme e dei colori..e gli

uomini immaginano più di quanto pensano”.

Gaston Bachelard

 

 

Giuseppe Adamo, in un atto quasi michelangiolesco sviscera la pittura fino a trovarne l’immagine già insita in essa. Spesso ci rimanda a segni indecifrabili e così ritmici da ricordarci i crop circles nei campi di grano, lasciandoci ancora frastornati di fronte alla loro origine. La sua materia pare direttamente rubata alla natura, tanto che, di fronte alle sue tele, siamo certi di trovarci di fronte ad un evento spontaneo, ad una germinazione, ad un’erosione millenaria in perenne mutazione.

 

Io, Linda Carrara, cerco di modellare la pittura affinché diventi natura stessa, abbandonando quasi la pratica più classica della pittura d’immagine e cercando di scolpire la materia pittorica per sottrazione o di assimilarla alla creazione ed alla sensazione della natura stessa. Cerco di rendere la materia evocativa, come nel caso dei frottage dove “la forma del paesaggio” è data dalla natura stessa che diventa matrice dell’opera per contatto, rubando la forma del reale senza rappresentarlo. Rubando cioè la pelle del reale.

 

Silvia Giordani, pare che sfruttando i movimenti quasi casuali della materia pittorica ed emulando la corrosione della pietra e la geologia della terra sotto la forza più o meno istintiva del gesto, riesce a trasformare la pittura in materia rocciosa la cui forma viene delineata da quelle campiture sfumate tipiche dei tramonti, delle albe o dei riflessi 

dell’a qua. In questo modo ci fa vedere un paesaggio grazie a semplici gesti, quasi senza voler disturbare quella materia che diviene solida e monumentale.

 

Lorenzo Di Lucido, con le sue monocromie verdi, che si rivelano a noi solo grazie alla luce che, colpendo la tela ci permette dapprima di intravedere e poi chiaramente di sentirci immersi nel paesaggio più incontaminato. Dipingendo la materia lui chiede alla luce di renderla visibile. Anche in questo caso ci si lascia guidare dall’evento naturale. Lorenzo lavora la materia grassa e pastosa della pittura assecondando le pennellate affinché, accarezzate dalla luce si rivelino sottoforma di immagine.

 

Vera Portatadino, con semplici piccolissime pennellate riesce a farci scrutare un mondo sotterraneo e quasi invisibile. L’importanza delle sue terre è reso tramite gesti, colori e materia che “impastandosi” e sovrapponendosi ci ridonano l’humus originario, come se riuscisse ad immaginare direttamente la materia; lei sembra esser riuscita a dipingere la terra con la terra, il petalo con la delicatezza della sua esistenza e il filo d’erba con il movimento che il vento gli dona.

 

Fabio Roncato, modella le sue sculture direttamente sfruttando la forza delle correnti del fiume Trebbia, rendendoci visibile “ciò che sta sotto alla superficie” e lasciando che la forma delle correnti imprima la sua forma e la sua forza alla materia. Roncato ci rende visibile ciò che visibile non è, il suo è un’atto magico, alchemico e scientifico che pone la natura al centro, in una collaborazione diretta. Le forme che ne derivano ci sottolineano l’ascesa della materia che evoca un avvenimento senza nemmeno il tentativo di rappresentarlo ma anzi, essendolo.

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NOTE BIBLIOGRAFICHE:

 

- Gaston Bachelard, La poesia della materia, Red edizioni, 1997

- Conversazioni audio con Gaston Bachelard trasmesse da INA/Radio France tra il 1952 e il1954, edizione italiana a cura di GB studio, Milano 1994

- L’anima e il sublime, a cura di Irina Casali, con i contributi di Florinda Cambria, irina Casali, Giuseppe Civitarese, Roberta De Monticelli, Elio Franzini,
  Franco Rella, Carlo Serra, Carlo Sini, Paolo SpinicciJaca Book, Editori Della Peste, 2020

 - Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, Ed. Newton, 1996

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